Il complesso dei fratelli siamesi
articolo tratto dalla "Settimana Incom"scritto
da Totò nel 1960
Alle tre del pomeriggio, il caffè era ancora
pieno di gente. Il cameriere li conosceva tutti
uno per uno: acrobati e illusionisti, cantanti e
ballerinette di fila. Qualcuno azzardava la richiesta
di un bicchiere d'acqua, gli altri seguitavano a
discutere di impossibili scritture. Saltare i pasti,
per quella gente, era diventato il fatto più
naturale.
Quel pomeriggio, a un tavolo sulla piazzetta, c'era
persino Peppino Villani. Si era seduto in disparte,
ordinando un caffè lungo (lui, questo lusso
poteva permetterselo). Perché don Peppino,
nel varietà, era una specie di padreterno.
Qualcuno si staccò dal gruppo e facendo finta
di niente gli passò davanti con un lungo
saluto: che avesse bisogno, per caso, di gente da
scritturare?«Lasciate fare a me», disse
un giovanotto piuttosto smilzo che aveva già
avuto qualche piccolo successo nelle sale di periferia.
Don Peppino lo conosceva di vista e gli disse subito,
senza troppi preamboli, che anche lui in quei giorni
era senza lavoro. "Giovanotto", gli propose
quindi, "vogliamo farla noi una formazione?
Bene. Sedete e scrivete: Peppino Villani, settecento
lire. Una cantante, centocinquanta. Un'attrazione,
cento. Un primo e un secondo numero, ottanta lire.
E venticinque per voi. Quanto fa in tutto?"
"Mille e cinqantacinque lire". "Bene,
datevi da fare e domani ci vediamo".
Il giorno dopo, alla stessa ora. "Don Peppì,
hanno detto che la formazione è bella assai,
ma costa troppo"."Questo è tutto",
rispose Villani. "E noi allora caliamo. Prendete
un pezzo di carta: Peppino Villani settecento lire.
Cento alla cantante e settanta all'attrazione. I
due numeri, cinquantacinque. E voi... voi dovete
contentarvi: ventitre lire. Giovanotto ditemi il
totale". "Novecentoquarantotto".
"E chi volete che rifiuti un affare del genere?"."Speriamo
bene, don Peppino".
Ventiquattr'ore piú tardi."Don Peppì,
che vi ho da dire? Sono tutti entusiasti, ma vogliono
spendere di meno"."E va bene, noi caliamo
ancora. Peppino Villani, settecento lire ... "
"Eh, no", scattò l'altro "se
qui non cala Peppino Villani, l'affare non si combina".
E l'affare, infatti, andò a monte.
Di Peppino Villani abbiamo
detto: un asso di quei tempi. L'altro era Antonio
de Curtis, un giovanottello ricco soltanto di molte
speranze. Sì, insomma, ero io. Nato a Napoli
in via Santa Maria Antasaecula, avevo trascorso
la mia adolescenza piú nelle strade del popolare
rione Sanità che sui banchi di scuola. Come
abbia fatto a prendere la licenza elementare e ad
iscrivermi al ginnasio, soltanto mia madre potrebbe
dirlo. Scelsero il collegio Cimino, nel palazzo
dei principi di Santobuono, ma io per la scuola
non ero tagliato proprio. Le mie avventure di ginnasiale
finirono assai presto, e ingloriosamente.
Né si può dire, per la verità,
che le mie esperienze militari abbiano avuto un
esito migliore. Ero poco piú che un ragazzo
quando mi presentai, volontario, al Distretto. Fui
assegnato al 22' fanteria, di stanza a Pisa, e quindi
distaccato a Pescia. Il rancio era una schifezza:
brodo che sembrava acqua e pasta che sembrava colla.
Allora, un-giorno, sapete cosa faccio? Gioco all'equivoco,
sissignori, gioco. A Pescia, dico, chi mi conosce?
Vado dal barbiere, mi faccio fare la tonsura come
un sacerdote e corro in trattoria.
Là ci stava un amico mio al quale avevo già
raccontato tutto. "Buonasera, reverendo",
mi dice,"si accomodi, si accomodi. Vedrà
che qui si trova bene. Ho già pensato io
a raccomandarla al padrone". Mangiai, infatti,
benissimo, e mi fecero anche uno sconto per riguardo
al pastore d'anime. Andai avanti così per
un pezzo, poi un giorno arrivò un cappellano
militare (vero) e successe un quarantotto.
Come Dio volle, anche
la "ferma" ebbe termine, e io potei finalmente
avvicinarmi a quel teatro che, ancora ragazzo, mi
aveva affascinato. La mia famiglia, intanto, si
era trasferita a Roma. Fu al Salone Elena, in piazza
Risorgimento, che io feci la mia prima esperienza.
Il Salone Elena era,
in realta', una modesta baracca di legno dove si
recitavano soprattutto La cieca di Sorrento e La
sepolta viva,L'ombra del disonore e Il capo della
camorra. Ma io sapevo che da pochi giorni era stata
scritturata la "Compagnia comica diretta da
Umberto Capece", che faceva rivivere la maschera
del Pulcinella napoletano. E fu Capece che mi consentì
finalmente di passare "dall'altra parte".
Non ero più lo spettatore Antonio de Curtis,
ma Totò attore comico.
Ebbi subito successo e, quindici giorni dopo, la
prima paga: due soldi al giorno. Questo mi incoraggiò,
due settimane più tardi, a chiedere un piccolo
aumento. Pioveva forte, quella sera, ed ero fradicio
da capo a piedi. "Signor Capece", gli
dissi, "mi basterebbe una lira per settimana:
almeno i soldi per tornare a casa con il tram. Perché
a piedi non ce la faccio più, andata e ritorno".
"Andate un po' a far del bene alla gente!",
brontolò Capece. E mi indicò la porta.
Prendendo il coraggio a due
mani, anche per non dover ascoltare mia madre che
invariabilmente mi rimproverava di non essere diventato
ufficiale di marina, decisi allora di presentarmi
a don Peppe Jovinelli che era uno degli impresari
più esigenti e più temuti di quel
tempo.
Peppe Jovinelli, a Roma, lo ricordano ancora oggi:
una specie di gigante che, arrivato a Roma da un
paese del napoletano, si era fermato in piazza Guglielmo
Pepe ripulendola dalla giungla dei "bulli"
e costruendovi, cinquant'anni fa, un teatro cui
diede il suo nome. Fu Jovinelli a lanciare Raffaele
Viviani ed Ettore Petrolini, e a valorizzare attori
come Armando Gill, Alfredo Bambi, Pasquariello e
Gustavo De Marco.
Erano, appunto, le macchiette di De Marco che io
conoscevo a memoria: soprattuto Il bel Ciccillo
e Il Paraguay. Le ripassai per bene davanti a uno
specchio e mi presentai a Jovinelli. Non era il
momento più propizio perché don Peppe
aveva appena finito di scaraventare fuori dal suo
ufficio un attore che era arrivato tardi alle prove,
tuttavia il colloquio fu abbastanza cordiale, molto
più di quanto potessi sperare.
"Ah, siete napoletano?",
chiese Jovinelli. "A me piacciono i napoletani.
E, ditemi, siete bravo?". "Mah, dicono".
"Dicono, dicono, e chissà poi se è
vero. Comunque vi aspetto domani per le prove".
Il giorno dell'esordio, mentre il pubblico batteva
ancora le mani, don Peppe si precipitò in
palcoscenico contrariamente alle sue abitudini.
"Giovanotto, siete stato veramente bravo",
mi disse stampandomi sulla schiena una pesante manata.
La settimana dopo, Jovinelli mi "riconfermava"
(come si dice nel gergo del teatro), mentre il mio
successo veniva annunciato da nuovi striscioni dove
il mio nome era scritto con caratteri alti mezzo
metro. Sapete che effetto mi facevano! Mi sembrava
di sognare.
Interpretando alla mia maniera le parodie vecchie
e nuove, con una buffa disarticolata recitazione
(più tardi mi presentarono, sui manifesti,
come "l'uomo di gomma"), riuscii ad affermarmi
in poco tempo. E, con l'avallo di Jovinelli, non
ebbi difficoltà - allo scadere del contratto
- a farmi scritturare prima all'Orfeo e quindi al
Salone Margherita di Napoli, dove il successo prese
proporzioni ancora maggiori.Tuttavia restava ancora
un baluardo da espugnare, il più difficile,
quel Teatro Sala Umberto di Roma, che era appannaggio
soltanto degli attori arrivatissimi.
Gli impresari non badavano a spese pur di assicurarsi
i nomi più in vista. "Dovrò farne
di anticamera prima di arrivarci", pensavo
passando e ripassando davanti a quel teatro. Ma,
per merito di un barbiere, la conquista fu assai
più rapida del previsto. Il barbiere si chiamava
Pasqualino ed era una specie di istituzione dell'ambiente
teatrale. Chiunque si presentasse a lui qualificandosi
"artista", otteneva la massima considerazione,
da uno sconto specialissimo sulle tariffe a un congruo
numero di applausi a teatro. Perchè Pasqualino
non si contentava di servire i suoi clienti di barba
e capelli, ma finiva addirittura con l'assumerne
la protezione, spellandosi le mani per applaudirli
e sfiatandosi per sostenerli in discussioni che
si protraevano per ore ed ore.
Il "salone" di Pasqualino si trovava in
via Frattina: a due passi, quindi, dal Teatro Sala
Umberto che Cataldi e Cavaniglia gestivano in via
della Mercede. Fu, appunto, in un afoso pomeriggio
di luglio che il cantante Gennarino De Pasquale
mi portò da Pasqualino. "Artista?",
chiese il barbiere. "Riconfermato da Jovinelli",
rispose l'altro. Quel "riconfermato",
detto con tono di sussiego da Gennarino, valeva
più di qualsiasi altro argomento.
Se Jovinelli mi aveva rinnovato
la scrittura, dovevo essere certamente un artista
con la A maiuscola.
L'autorevole presentazione di Gennarino ebbe su
Pasqualino un effetto insperato: fu l'apriti Sesamo,
che dico? , il talismano miracoloso per mezzo del
quale il Teatro Sala Umberto non fu più un'aspirazione
ma una realtà immediata. Pasqualino lavorò
con abilissima diplomazia, strappando una mezza
promessa a Cataldi e correndo subito dopo da Cavaniglia
come se il contratto fosse già stato firmato.
Così, ero appena stato liquidato da Jovinelli
quando mi trovai da un giorno all'altro a debuttare
al Teatro Sala Umberto.
Fu un successo strepitoso: praticamente, il lasciapassare
per tutti i grandi teatri.
Da quel momento, infatti, non
fui più io a cercare lavoro, ma furono gli
altri a cercare me. Ormai le grandi formazioni mi
spettavano di diritto, a cominciare dalla "Maresca
numero due" dove fui il primo attore a fianco
di Isa Bluette (la "Maresca numero uno"
aveva "in ditta" Angela Ippaviz e Alftedo
Orsini).
Tra i successi più rilevanti di quel tempo
c'è anche una commedia di Eduardo Scarpetta,
'0 balcone 'e Rusinella, che fu replicata per molte
settimane al difficile Teatro Nuovo di Napoli.
Con me, lavorava Titina De Filippo.
Il resto, appartiene al teatro di oggi, o quasi:
una serie pressochè ininterrotta di riviste
per molte delle quali ho potuto giovarmi della felicissima
collaborazione di Michele Galdieri e - per cinque
stagioni - di Anna Magnani.
Poi c'è stata una guerra di mezzo e i ragazzini
di allora sono diventati padri di famiglia, ma riviste
come Volumineide, Che ti sei messo in testa? e Quando
meno te l'aspetti si ricordano ancora oggi.
La collaborazione con Galdieri riprese nel dopoguerra:
ricordo alcune riviste come Bada che ti mangio e
C'era una volta il mondo... dove uno sketch - quello
del vagone letto - è diventato famoso.
Da vent'anni e più a questa parte, la mia
attività teatrale è andata avanti
di pari passo con quella cinematografica, anche
se qualcuno dice che Totò attore cinematografico
ha finito con l'uccidere, poco a poco, Totò
attore di rivista. Vogliamo dare una occhiata alle
cifre? Il mio primo film è del '36. Fermo
con le mani Animali pazzi e, nel 1940, San Giovanni
decollato e L'allegro fantasma.
Da allora, i miei film si sono
susseguiti a ritmo sempre più vorticoso.
Non era difficile il caso che ne girassero due contemporaneamente,
la qual cosa mi costringeva a spostarmi rapidamente
- in macchina e già truccato - da un teatro
di posa all'altro.
Nei giorni scorsi ho finito
di lavorare al mio settantacinquesimo film che dovrebbe
allinearsi ai migliori da me interpretati: si intitola
Risate di gioia e, per diverse ragioni, costituisce
una gradevole esperienza di lavoro.
Tanto per cominciare, vi dirò che ha lavorato
con me Anna Magnani (biondissima per l'occasione):e
quando mi preparavo per girare e sentivo nella roulotte
vicino alla mia - il film è fatto in gran
parte di esterni- la voce di Nannarella mi sembrava
di essere tornato ai tempi di Volumineide.
Un'altra ragione non meno importante
(oltre a un cast di attori simpatici, a cominciare
da Edy Vessel che è molto bella e che ha
molti atouts da giocare) è costituita da
quell'intelligente regista che è Mario Monicelli
con il quale ho interpretato Guardie e ladri, e
cioè uno dei miei film più riusciti.
E adesso, se non vi dispiace,
vogliamo parlare di Totò compositore? Da
buon napoletano, perchè è una cosa
che abbiamo nel sangue. A Napoli anche gli analfabeti
sono in grado di improvvisare. Non capisco piuttosto
perché la RAI abbia trasmesso per tanto tempo
le mie canzoni soltanto alle quattro dopo mezzanotte,
per i camionisti e per quelli che soffrono d'insonnia.
Cioè no, lo capisco benissimo.
Le poesie che preferisco le ho scritte nel mio dialetto
e hanno un'ispirazione fondamentalmente triste che
si ripete come un leit-motiv. Molte poesie, che
io stesso ho musicato, hanno trovato la strada del
successo: di queste, la più nota è
Malafemmena.
Dovrei, ora, aggiungere qualcosa
a proposito della mia vita privata, ma è
un argomento che non desidero toccare. Dicono che
sono troppo riservato, ma credo che un attore -
quando esce da un palcoscenico o da un teatro di
posa - debba appartenere soltanto a se stesso. Vedendomi
in palcoscenico o sullo schermo, la gente è
portata ad immaginarmi molto diverso da come sono
nella realtà di tutti i giorni: un uomo semplice,
credetemi, che concede ben poco a se stesso per
divertire gli altri. E poco importa se, qualche
volta, "gli altri" non capiscono.
Ne volete un esempio? Abitavo
in una bella casa di viale Parioli dove, tra gli
inquilini, c'erano anche un cardinale e un ambasciatore.
Ogni volta che m'incontrava, il portiere mi salutava
con tanto di "eccellenza" facendomi profondissimi
inchini. Poi, una sera, si fece coraggio. "So
che lei", mi disse, "è un attore
molto applaudito. Mi piacerebbe sentirla una volta".
Gli procurai due posti per quella sera stessa. Il
giorno dopo, incontrandomi, non soltanto non mi
salutò, ma mi rise in faccia. Da allora,
non fui più per lui una persona rispettabile,
ma un saltimbanco.
Ho sempre lavorato molto, e
ancora oggi - nonostante i disturbi alla vista -
non mi risparmio. Anche quando potevo servirmi di
un Galdieri in piena forma, gli sketch più
sostanziosi li elaboravo pazientemente sino al momento
in cui li sentivo "su misura": come facevano,
del resto, Raffaele Viviani e Ettore Petrolini.
Ricordo che a Firenze, dopo dieci giorni di esauriti,
fui riconfermato con un aumento di paga da 75 a
200 lire. Ero con la compagnia Maresca: una sera,
il capocomico mi pregò di stare fermo quando
non dovevo recitare perché il pubblico rideva
e si distraeva a danno degli altri interpreti. La
sera dopo, lo incontrai poco prima che si iniziasse
lo spettacolo.
"L'avevo pregata", mi disse, "di
non monopolizzare il palcoscenico quando non è
di scena. È vero che lei, ieri sera, non
si muoveva, ma soltanto teoricamente: perchè
anche stando fermo, era tutto un movimento. E il
pubblico rideva più di prima. Quindi, faccia
quello che le pare".
Più di una volta, camminando
per la strada, mi sono sorpreso a seguire qualche
tipo stravagante, osservandone minutamente i gesti
e assimilandone il modo di camminare, di muoversi,
di salutare e di gesticolare.
Se fossi uno studioso di psicoanalisi, dovrei definire
questa mania come il "complesso dei fratelli
siamesi". Infatti, non appena noto un tipo
che mi colpisce per alcune caratteristiche, mi sembra
che un fluido mi leghi a lui, ragion per cui divento
l'altra parte dell'individuo che osservo, costituendo
- con lui - un'ideale coppia di gemelli.
Da ragazzo mi chiamavano proprio per questo "
'o spione".
Hanno scritto di me che sono "la più
autentica eredità della risata", eccetera
eccetera. Non sta a me giudicare. Non ho inventato
il taschino dietro la schiena come Rascel, o il
ricciolo sulla fronte come Macario. Quei panni che
mi cascavano addosso come se fossi stato un manichino
e che mi sono serviti come "costume",
altro non erano che la continuazione dell'unico
abito di scena, sempre più logoro, che portavo
nei primi anni di teatro: un tight troppo largo,
un paio di pantaloni "a saltafossi", una
vecchia bombetta e una stringa da scarpe per cravatta.
"Ma come? Hai fatto barone
il tuo cane e cavaliere il tuo pappagallo?",
mi disse un giorno Lucy D'Albert, la più
"completa" tra le soubrettes che hanno
lavorato al mio fianco. "E con questo?",
le risposi. "A prescindere dal fatto che Caligola
fece senatore il suo cavallo, si tratta di cariche
onorifiche puramente onorarie che hanno valore soltanto
entro il perimetro della mia abitazione. E poi,
credimi, sia l'uno che l'altro se lo meritavano
proprio".
Il cane e il pappagallo costituiscono, infatti,
gli unici miei hobbies, se così si può
dire. Non vado a pescare e non raccolgo francobolli.
In quanto a scrivere versi e canzoni, quello non
è un hobby, ma una necessità.
E così, credo di avervi
detto tutto, meno la data di nascita. Sono nato
un quindici febbraio: acquariano, porta buono. Ma
l'anno, che importanza può avere? Un attore
non lo deve sapere mai. L'importante è sentirsi
giovani. E io mi sento giovane e sempre pronto -
se dovesse presentarsi una occasione favorevole
- a tornare ancora una volta sul palcoscenico e
a togliere dal "cassetto dei ricordi"
quel piumetto che un bersagliere del Terzo mi gettò
una sera dal loggione ai tempi di Eravamo sette
sorelle. Quel piumetto che diede vita alla mia più
felice e sfrenata improvvisazione.